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  • Il COVID 19, nuovo motivo di separazione?

    Sono in repentino aumento le crisi coniugali a causa della pandemia che induce o a volte obbliga a modificare radicalmente le proprie abitudini e di conseguenza quelle della coppia. Non si può attribuire al solo LOCKDOWN l'impennata avutasi delle separazioni, perché se è vero che la “ convivenza forzata” già subita e che forse anche quella che si profila all'orizzonte, ha incrementato ulteriormente il ricorso alla separazione tra coniugi, è pur vero che la coppia che prende tale decisione era già traballante, e l'equilibrio si fondava sul fatto di essere lontani per svariate ore del giorno per motivi lavorativi, il che consentiva di incontrare altre persone se non addirittura anche “l'amante” e sopportare così il tran tran familiare... Con il venir meno delle “evasioni lavorative” e di quelle “conviviali” cui tutti siamo obbligati per l'emergenza sanitaria, nel rispetto dei numerosi DPCM causa Covid 19, la situazione all'interno delle famiglie ha generato l'incremento dei ricorsi per separazione sia consensuali che giudiziali oltre ai divorzi. E' da escludere però, che la causa di tale incremento sia da addebitare esclusivamente al periodo che stiamo vivendo, ma piuttosto trova origine da lontano, ovvero dal malessere e dalla incomprensione degli stessi coniugi che semplicemente ora “ esplode”! Rimedi Il rimedio fornitoci dal legislatore è la separazione legale che avviene mediante l'intervento di un giudice e può essere consensuale o giudiziale. Nel primo caso il giudice omologherà ciò che i coniugi hanno concordato; nel secondo caso , invece, interverrà una sentenza. Ovviamente in entrambi i casi il magistrato esperirà il tentativo di conciliazione. La separazione è un “ rimedio transitorio” in quanto i coniugi che vi ricorrono non cessano di essere tali ma vedono venir meno solo alcuni obblighi quali la coabitazione e la fedeltà, mentre, resta inalterato l'obbligo di mantenere, educare ed istruire i propri figli oltre quello di assistenza materiale del coniuge più debole economicamente. E' possibile ottenere la separazione anche ricorrendo alla “negoziazione assistita da un avvocato” o ancora alla dichiarazione innanzi al sindaco seguendo un iter ben definito. In ogni caso è sempre opportuno consultare un esperto della materia prima di intraprendere la separazione o il divorzio. Legale Oggi Lockdown covid 19

  • L'arbitrato, tra tradizione ed innovazione.

    La velocità dei traffici, delle vendite on line, ed in generale l'esecuzione dei contratti di vendita, oggi richiede sempre più di frequente modalità "alternative" di risoluzione delle controversie, al fine di non attendere più le lungaggini della giustizia tradizionale. Come spesso accade a chi si è imbattuto in problematiche con le vendite on line, nazionali o internazionali, si veda ad esempio la modalità di risoluzione delle controversie di Ebay o Amazon, per citare i più rilevanti, la strada porta a forme alternative di "dispute resolution", che nel nostro codice sono codificate nella parte dedicata all'arbitrato da tempo usato in abito societario commerciale. Oggi nella pratica assumono nuove denominazioni, ad esempio "Piattaforma per la Risoluzione online delle controversie (ODR)" oppure "Programma per la protezione dell'acquirente" o altro, ma ad avviso di chi scrive, si tratta sempre di modalità differenti di risoluzione della controversia, con il preciso scopo di evitare le lungaggini della giustizia ordinaria, per intenderci quella del Tribunale. La comunità europea ha individuato una serie di soggetti abilitati alla risoluzione delle controversie, divisi per materia e per stato, si tratta di organismi riconosciuti, ciascuno con propri regolamenti. L'Arbitrato quindi oggi deve essere inteso, a mio avviso, quale strada alternativa al Giudice tradizionale, ed in una ottica di efficienza, proprio per giungere ad un risultato accettabile ed in un tempo ragionevolmente delimitato. L'arbitrato quindi sta diventando il fulcro per la risoluzione delle nuove controversie, sia in chiave "virtuale" che in chiave tradizionale, giusto per citare il più noto in ambito bancario o societario, settori quest'ultimi ove viene utilizzato frequentemente da tempo, ma sempre con l'ausilio di un legale che valuti la vicenda. E quindi ecco che la problematica si sposta su quale sia il potere che la legge, o le parti della disputa, (venditore/compratore) attribuiscono agli arbitri, e quale sia la tempistica che questi possano adottare. Un arbitrato troppo lungo perderebbe di senso, così' come un arbitrato senza termine, "sine die" sarebbe non efficiente. Per il codice civile italiano il termine massimo è di 240 giorni, ai sensi dell'articolo 820 del codice, ma cosa accade se gli arbitri non lo rispettano? A questa domanda ha risposto la recente pronuncia della Cassazione nella vicenda trattata da questo Studio Legale che ha analizzato l'ampiezza dei poteri dell'arbitro in chiave temporale, ovvero se l'arbitro dopo il mancato rispetto del termini massimo di durata dell'arbitrato, possa ancora ritenersi legittimato alla decisione. Si pensi infatti alla inutilità della decisione nell'eventualità di un arbitrato "senza fine" o senza una data di scadenza! Così si è pronunciata la Suprema Corte: "in tema di arbitrato, questa Corte ha avuto infatti modo di ribadire più volte che, ai sensi dell'art. 829, primo comma, n. 6 cod. proc. civ., il mero decorso del termine per la pronuncia del lodo non è di per sé sufficiente a determinarne la nullità, costituendone il mero sostrato di natura fattua-le, cui deve fare riscontro, ai sensi dell'art. 821 cod. proc. civ., una manifestazione della volontà di far valere la decadenza, la quale costituisce oggetto di un vero e proprio onere posto a carico della parte interessata, il cui adempimento non si risolve in una mera eccezione da proporsi nell'ambito del procedimento arbitrale, trattandosi invece di un atto di disposizione in merito alla nullità, in difetto del quale quest'ultima non può essere fatta valere (cfr. Cass., Sez. I, 23/01/2012, n. 889; 26/03/2004, n. 6069; 15/11/ 1984, n. 5771);che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, l'onere di notificare alle altre parti un atto recante un'apposita manifestazione di volontà, posto a carico della parte che intenda avvalersi della decadenza, non comporta un eccessivo aggravamento della posizione processuale di questa ultima, risultando anzi coerente con la valorizzazione del fondamento volontaristico dell'arbitrato, emergente dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 40 del 2006; che tale interpretazione dell'art. 821 cod. proc. civ. non comporta neppure l'attribuzione agli arbitri del potere di rinviare sine die il deposito del lodo, in quanto, consentendo alla parte interessata di far valere in qualsiasi momento l'intervenuta scadenza del termine e di provocare in tal modo l'estinzione del procedimento arbitrale, si traduce anzi in una specifica limitazione del predetto potere, il cui esercizio risulterebbe altrimenti censurabile, in caso di scadenza del termine dopo il decorso di quello per il deposito dello ultimo atto difensivo previsto, soltanto in sede d'impugnazione del lodo per nullità; Conclusioni: La Cassazione ha ribadito un tema ben presente all'interno del nostro codice, ovvero gli arbitri hanno libertà di pronunciare il lodo anche "oltre" i termini massimi di durata dell'arbitrato, a patto che nessuna delle parti abbia manifestato il proprio dissenso durante il perdurare del tempo necessario alla pronuncia. E' solo il caso di precisare che nelle modalità di risoluzione delle controversie alternative citate solo a titolo esemplificativo in questo articolo, la durata massima è prestabilita dal regolamento adottato ed accettato dalle parti, ove presente. In assenza di un giudice quindi da quì l'esigenza di un legale specializzato che saprà indirizzare il cliente verso la modalità alternativa di risoluzione della controversia più adatta all'esigenza, e comprenderne i tempi e gli effetti. Legale Oggi Arbitrato Processo Civile Arbitro Avezzano

  • La Sede Farmaceutica in gestione provvisoria è soggetta al Concorso.

    Anche le sedi in gestione provvisoria sono soggette al Concorso Farmacie. Questa la sintesi della pronuncia del Consiglio di Stato n. 61. E’ stata pubblicata in data 15 Febbraio 2019 la sentenza n.61 del 2019 con cui il Consiglio di Stato accogliendo l'appello della Regione Lazio, e dei contro interessati rappresentati dagli avvocati Renata Angelini ed Aldo Lucarelli ha ribaltato la sentenza con cui il Tar Lazio aveva escluso dal concorso pubblico straordinario nazionale per le farmacie, la sede di un comune in quanto già assegnata in gestione provvisoria. La vicenda risale al 2012 allorquando il Direttore del Dipartimento Programmazione Economica e Sociale Regionale, in applicazione del DL n.1/2012 bandiva un concorso pubblico straordinario per l’assegnazione delle sedi farmaceutiche disponibili per i privati e vacanti nell’ambito territoriale regionale, individuate, tra l’altro, applicando il nuovo criterio demografico, e cioè una sede farmaceutica ogni 3.300 abitanti. Veniva quindi individuata la sede del Comune XXX tra quella da immettere a concorso, sede che era del Comune ma affidata in via provvisoria. Sennonché la farmacista che gestiva già la sede, si oppose, facendo ricorso al Tar Lazio, che nel 2014 le dava ragione, ritenendo che la sede ex comunale in gestione provvisoria non andasse a concorso. Tale sentenza di primo grado quindi modificava il numero delle sedi disponibili per il concorso straordinario per la regione. Si appellavano contro tale decisione sia la Regione, che altra farmacista, proprio per evidenziare la necessità che anche le sedi in gestione provvisoria comunale fossero soggette alla legge nazionale e che quindi fosse dichiarata la disponibilità per il concorso. Per una migliore comprensione dei vari profili controversi, è opportuno evidenziare che, nell’ambito del quadro normativo di riferimento, riveste rilievo preminente la legge n.27/2012, che all’art.11, ha stabilito sia l’obbligo di ciascun Comune di individuare le nuove sedi farmaceutiche disponibili nel proprio ambito territoriale sia l’obbligo della Regione di bandire “il concorso straordinario per soli titoli per la copertura delle sedi farmaceutiche di nuova istituzioni e per quelle vacanti”. Infatti, da un lato, l’art.11 della legge n.27/2012 contempla l’inserimento nel concorso straordinario non solo delle “sedi disponibili”, individuate a seguito dell’applicazione del neointrodotto parametro demografico di 3.300 abitanti, ma anche di quelle che, comunque, sono “vacanti”, mentre, per altro verso, la seconda sede farmaceutica comunale, istituita con il criterio topografico con DGR n.XXX/2011, all’epoca del concorso straordinario del 2012 risultava aperta, ma affidata soltanto in gestione provvisoria ad altra farmacista. Il Consiglio di Stato ha precisato che la procedura di affidamento in gestione provvisoria non è assimilabile ad una procedura concorsuale compiuta sia che tale gestione provvisoria non possa essere assimilata ad una definitiva assegnazione conseguente alla procedura di istituzione della sede stessa con il criterio topografico. Soggiunge il Consiglio di Stato “una conferma indiretta della circostanza che la Regione Lazio nel 2012 fosse obbligata a mettere a concorso anche la sede affidata in gestione provvisoria alla farmacista appellata si riviene anche nella stessa legge n.475/1968, art.17, in cui si dispone che, ove venga assegnata con pubblico concorso una sede farmaceutica “precedentemente gestita in via provvisoria” al vincitore del concorso “fanno carico, nei confronti del cessante, tutte le obbligazioni previste dall’art.110 del testo unico delle leggi sanitarie approvato con regio decreto 27 luglio 1934, 1265”e, quindi, anche la relativa di indennità di avviamento, che, nel caso di specie, spetta alla farmacista affidataria provvisoria”. E bene a distanza di 4 anni, il Consiglio di Stato ha accolto l'appello ed ha quindi stabilito che la sede in gestione provvisoria ex Comunale rientri tra quelle disponibili per il concorso straordinario, a nulla rilevando che era già stata data in gestione provvisoria. Legale Oggi a cura dell'avvocato Aldo Lucarelli Avv. Aldo Lucarelli Consiglio di Stato Concorso Farmacie Farmacia Ricorso

  • Medici Chirurgia Fisioterapia e Professioni Sanitarie.

    Entrare in graduatoria è una gran fatica! La presentazione di una domanda di ammissione ad una facoltà a numero chiuso così come la partecipazione ad un concorso per la Specializzazione Medica rappresenta un momento importante e di grande stress per lo Studente ed il Neo Medico, a volte chiamato a far fronte a mille problematiche burocratiche. La mancata ammissione ad un Corso di Specializzazione o il collocamento in posizione non utile in graduatoria è motivo di frustrazione e risentimento da qui nasce l'esigenza di avere un chiarimento. Il Blog tramite form offre una prima risposta orientativa per comprendere le necessità del candidato e verificare così la possibilità di un rimedio o di una soluzione al caso, dalla semplice Istanza in Autotutela sino al ricorso al Tar ove ve ne siano i presupposti, il tutto secondo la tecnica del Tailored Made ovvero una risposta su misura e ritrovare la serenità. Tra i vari rimedi che ogni anno prendono piede vi sono i ricorsi di gruppi di esclusi. Se da un punto di vista logico di costi/benefici sembrano essere un rimedio valido, oggi vi sono pronunce di Tribunali amministrativi che si discostano da questo indirizzo e che anzi rigettano i ricorsi collettivi per una serie di questioni non sempre facili da analizzare ma che si possono sintetizzare nella massima "ad ognuno il suo". Quindi attenzione ai ricorsi collettivi, molto spesso pubblicizzati come rimedi, ma altrettanto spesso dichiarati inammissibili. Leggi l'approfondimento sul tema qui. Legale Oggi Medici Chirurgia Fisioterapia Concorso Ricorso Avv. Aldo Lucarelli

  • Il Silenzio della Pubblica Amministrazione, scelta o inerzia colpevole?

    Ci è stato chiesto di avere una delucidazione sul Silenzio della Pubblica Amministrazione e quando questa è sempre impugnabile davanti al TAR. Partiamo da un presupposto, ai sensi dell'articolo 2 della Legge 241/1990: “Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un'istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante 'adozione di un provvedimento espresso”. Il silenzio della pubblica amministrazione è quindi un comportamento omissivo dell'amministrazione di fronte a un dovere di provvedere, di emanare un atto e di concludere il procedimento con l'adozione di un provvedimento entro un termine prestabilito. Esiste tuttavia anche il Silenzio Assenso ai sensi dell'art. 20 del Codice degli appalti secondo cui il silenzio equivale a provvedimento di accoglimento dell'istanza se non perviene diniego nei termini. (previsti dall'art. 2 della legge 241/1990). Tuttavia non ad ogni domanda rivolta alla P.A. consegue un obbligo a provvedere, e quindi in caso di mancato riscontro non è esperibile il ricorso alla giustizia amministrativa con il particolare rimedio del ricorso avverso il silenzio previsto dall'art. 117 del codice amministrativo. Infatti secondo il granitico insegnamento della giurisprudenza, a fronte di istanze generiche non consegue alcun obbligo dell’Amministrazione di provvedere, tenuto conto che la stessa “soggiace alla più ampia valutazione discrezionale della Pubblica amministrazione e non si esercita in base ad un'istanza di parte, avente al più portata meramente sollecitatoria e inidonea, come tale, ad imporre alcun obbligo giuridico di provvedere, con la conseguente inutilizzabilità del rimedio processuale previsto avverso il silenzio inadempimento della p.a.” (Cons. Stato, Sez. III, sent. n. 539/2021.) Il rimedio avverso il silenzio è il ricorso alla giustizia amministrativa ai sensi dell'art. 117, ma attenzione, il ricorso è esperibile solo ove sussista un obbligo a provvedimento da parte della P.A. trattasi infatti di silenzio inadempimento relativo quindi all'obbligo a provvedere entro il termine di cui all'articolo 2 della legge 241/1990. Come ulteriormente chiarito dal giudice amministrativo: “Il rito del silenzio è strettamente circoscritto all'attività amministrativa di natura provvedimentale, ossia finalizzata all'adozione di atti destinati a produrre effetti nei confronti di specifici destinatari; il silenzio inadempimento è, dunque, configurabile al cospetto di un obbligo giuridico di provvedere da parte dell'amministrazione, cioè di esercitare una pubblica funzione normativamente attribuita alla competenza dell'organo amministrativo destinatario della richiesta; presupposto per l'azione avverso il silenzio è dunque l'esistenza di uno specifico obbligo, e non già di una generica facoltà o di una mera potestà, dell'amministrazione di adottare un provvedimento amministrativo esplicito, volto ad incidere, positivamente o negativamente, sulla posizione giuridica differenziata del ricorrente” (Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 2930/2021). In conclusione quindi la risposta al quesito non può che essere negativa, in quanto presupposto per l'azione avverso il silenzio omissivo è dunque l'esistenza di uno specifico obbligo, e non già di una generica facoltà o di una mera potestà, dell'amministrazione di adottare un provvedimento. Legale Oggi

  • Società: L'assemblea della Srl può vincolare il socio ai versamenti?

    Per rispondere al quesito bisogna partire da un presupposto, il rapporto tra soci di Srl e società ricade all'interno di un rapporto contrattuale. Ove quindi l'assemblea dei soci abbia deliberato un versamento per determinati scopi, non obbligatori ex lege, si pensi ad un finanziamento per operazioni straordinarie, la società non potrà vincolare tramite la delibera societaria il singolo socio a meno che non si instauri dopo la delibera assembleare, un rapporto specifico tra la società ed il singolo socio, dal quale quindi potrebbe derivare anche un'azione di ingiunzione. Come da giurisprudenza costante, Trib. Milano 15 giugno 2017, in Giur. it. 2017, 2682, secondo il quale allorché sia sottoposta all’assemblea di una S.r.l. la richiesta, rivolta ai soci, di versare somme a titolo di finanziamento, la sua approvazione non fa sorgere di per sé, neppure in capo a chi abbia espresso voto favorevole, l’obbligo di eseguire il versamento, essendo all’uopo necessaria un’ulteriore, distinta manifestazione di volontà negoziale da parte di ciascun socio uti singulus, la cui prova non richiede forme particolari)”. La deliberazione assembleare, di un finanziamento, anche ove espressa con il voto favorevole del socio, non può essere considerata alla pari di una ricognizione di debito e quindi non è sufficiente per vincolare, in assenza di un ulteriore accordo contrattuale, il singolo socio al versamento richiesto dall'assemblea. Secondo il Trib. Milano 19.6.2017 “La delibera assembleare unanime con la quale sia deciso di “approvare la richiesta di versamento in conto finanziamento ai soci fino alla concorrenza massima di €…non appare di per sé idonea a fondare alcun credito della SRL verso il socio, essendo la SRL onerata della dimostrazione della successiva adesione del socio alla richiesta di finanziamento rivoltagli dalla società…”. “In materia di aumento del capitale di una società a responsabilità limitata, l'obbligo di versamento per il socio deriva non dalla deliberazione, ma dalla distinta manifestazione di volontà negoziale, consistente nella sottoscrizione della quota del nuovo capitale offertagli in opzione, ciò indipendentemente dall'avere egli concorso o meno con il proprio voto alla deliberazione di aumento;…” (Cass. 15.9.2009 n. 19813, conf.: Cass. 19.10.2007 n. 22016). La vicenda non è scevra di aspetti particolari da verificare caso per caso, in particolare se il versamento deliberato dall'assemblea sia in conto capitale o a titolo di finanziamento, e quindi contrattualmente come un mutuo da restituire. Se infatti per i versamenti in conto capitale isolate pronunce giurisprudenziali hanno ammesso la sufficienza della del vincolo dalla delibera assembleare, (Trib. Trani 23.10.2003 in Le Società 2004, 4, 477 e Trib. Roma 3 Maggio 2017) cosa differente accade ove tale versamento avvenga a titolo di finanziamento, rendendosi necessaria una specifica pattuizione per la restituzione che la stessa società dovrà formalizzare verso il socio finanziatore. In conclusione quale che sia lo scopo, ovvero finanziamento o aumento di capitale, e quale che sia la modalità, ovvero a titolo di mutuo o in conto capitale, sembra preferibile l'orientamento secondo cui la delibera dell'assemblea non sia sufficiente a far sorgere alcun obbligo in capo al socio per il successivo versamento, occorrendo a tal riguardo uno specifico e separato accordo. Sul punto conforme anche Trib. Roma imprese del 4 aprile 2018. Legale Oggi Società: L'assemblea della Srl può vincolare il socio ai versamenti? No, è necessario un ulteriore atto che regoli i rapporti tra socio e società, se il versamento è a titolo di finanziamento, e questo perché i soci sono terzi con i quali la società dovrà costituire uno specifico rapporto contrattuale.

  • Appalti: consorzio stabile ed avvalimento a cascata.

    La giurisprudenza qualifica il Consorzio stabile, quale operatore economico costituente un’impresa collettiva operante mediante un patto consortile con le imprese consorziate avente finalità mutualistica. (TAR Bologna 975/21). Da ciò discenda la possibilità per il Consorzio di utilizzare tanto le risorse proprie, quanto quelle delle imprese ad esso consorziate, avente uno scopo mutualistico. Per ciò che riguarda l’avvalimento del Consorzio nella veste di impresa ausiliaria si deve rilevare che, secondo l’oramai consolidato indirizzo della giurisprudenza amministrativa, è pienamente ammissibile e legittimo senza ricadere nel fenomeno – non consentito dall’ordinamento – del c.d. “avvalimento a cascata” È solo il caso di precisare che nella l'Anac ha precisato che «si configura avvalimento a cascata quando l'impresa ausiliaria si avvale a sua volta dei requisiti di un'impresa terza e tale non è il caso di consorzio stabile che dichiara di “avvalersi” di un'impresa esecutrice». Quanto al contenuto Il contratto di avvalimento non deve quindi necessariamente spingersi, ad esempio, sino alla rigida quantificazione dei mezzi d’opera, all’esatta indicazione delle qualifiche del personale messo a disposizione ovvero alla indicazione numerica dello stesso personale. Tuttavia, l’assetto negoziale deve consentire quantomeno “l’individuazione delle esatte funzioni che l’impresa ausiliaria andrà a svolgere, direttamente o in ausilio all’impresa ausiliata, e i parametri cui rapportare le risorse messe a disposizione” Legale Oggi a cura dell'Avvocato Aldo Lucarelli Consiglio di Stato, sez. IV, 11 maggio 2020 n. 2953; Cons. Stato, sez. IV, 26 luglio 2017, n. 3682, e CdS 6212/21. Riferimenti normativi: art. 45 d.lgs. n. 50/2016 art. 89 d.lgs. n. 50/2016

  • Appalti: Il Consorzio Stabile e l'impresa consorziata possono partecipare alla stessa gara.

    Facciamo il punto della questione, per la giurisprudenza l’automatico divieto di partecipazione a una gara, tanto a carico del consorzio stabile quanto della consorziata non indicata quale esecutrice, può giustificarsi solo laddove un’indagine in concreto dimostri che il rapporto fra i relativi organi conduca a individuare un unico centro decisionale; la mera partecipazione dell’impresa a un determinato consorzio stabile non può fornire elementi univoci in tal senso, tali da fondare una vera e propria praesumptio juris et de jure, che si traduce in una sorta di sillogismo categorico circa l’esistenza di un’unicità di rapporti fra consorzio stabile e proprie consorziate. L’analisi quindi deve spostarsi sul concreto centro decisionale che dirige il Consorzio e l’impresa in relazione alla gara e ciò in quanto in via di principio Il Consorzio stabile, il quale partecipa a una gara d’appalto in proprio deve ritenersi - in linea di principio - un soggetto distinto dai consorziati, con conseguente irragionevolezza, sotto il profilo della sproporzione, dell’esclusione automatica di tutti i soggetti imprenditoriali che ne fanno parte non designati quali esecutori. Tale principio tuttavia non sottrae il potere di controllo della stazione appaltante. Rimane salvo il potere/dovere della stazione appaltante di verificare l’esistenza in concreto di un collegamento tra il Consorzio stabile e le imprese consorziate o tra queste ultime che possa fare ritenere che le offerte sono espressione di un unico centro decisionale con conseguente alterazione della concorrenza; non sono, invece, ammissibili meccanismi automatici i quali sono sproporzionati. Tar Palermo 3318/2021. Legale Oggi a cura dell'Avvocato Aldo Lucarelli

  • Appalti: il Consiglio di Stato ritorna sui "gravi illeciti professionali"

    Torniamo a parlare dell'articolo 80 del codice degli appalti. La giurisprudenza amministrativa ha statuito che l’esistenza dei “gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia l’integrità o affidabilità” dell’operatore economico è rimessa alla valutazione discrezionale dell’Amministrazione, potendo perciò essere disposta l’esclusione dalla gara dell’operatore economico solo in presenza di tale concreto ed effettivo apprezzamento da parte della Stazione appaltante delle circostanze rilevanti ai fini della partecipazione alla gara, ma non per la mera omessa dichiarazione di siffatte circostanze. Invero, come statuito dalla giurisprudenza, la violazione degli obblighi informativi discendenti dall’art. 80, comma 5, lett. c), D.Lgs. 50/2016 intanto può comportare l’esclusione del concorrente reticente, in quanto essa sia stata valutata dalla Stazione appaltante in termini di incidenza sulla permanenza degli imprescindibili requisiti di integrità ed affidabilità del concorrente stesso sì che “l’esclusione non è automatica, ma è rimessa all’apprezzamento discrezionale della Stazione Appaltante, la quale potrà adottare la misura espulsiva una volta appurato, indipendentemente dalle modalità di acquisizione dei relativi elementi di fatto, che l’omissione dichiarativa abbia intaccato l’attendibilità professionale del singolo operatore economico, minando la relazione di fiducia venutasi a creare a seguito della partecipazione alla gara” (così Consiglio di Stato, Sez. V, 9 gennaio 2019, n. 196). Infatti la giurisprudenza ha altresì chiarito che “in tanto una ricostruzione a posteriori degli obblighi dichiarativi può essere ammessa, in quanto si tratti di casi palesemente incidenti sulla moralità ed affidabilità dell’operatore economico, di cui quest’ultimo doveva ritenersi consapevole e rispetto al quale non sono predicabili esclusioni “a sorpresa” a carico dello stesso» (v. Cons. Stato, sentenza n. 4316 del 2020)” (Cons. Stato, IV, 5 agosto 2020, n. 4937) Va infatti conferita “determinatezza e concretezza” all’elemento normativo della fattispecie, ovvero al carattere “dovuto” dell’informazione, al fine di “individuare con precisione le condizioni per considerare giuridicamente dovuta l’informazione”, dovendosi tenere distinte le due fattispecie: a) dell’omissione delle informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione, che comprende anche la reticenza, cioè l’incompletezza della dichiarazione resa; e b) della falsità delle dichiarazioni, per tale intendendosi la presentazione nella procedura di gara in corso di dichiarazioni non veritiere, rappresentative di una circostanza in fatto diversa dal vero (cfr. ordinanza Cons. Stato, V, 9 aprile 2020, n. 2332). Nelle omissioni dichiarative certamente non può essere insito alcun automatismo escludente, in quanto essa postula sempre un “apprezzamento di rilevanza della stazione appaltante, a fini della formulazione di prognosi in concreto sfavorevole sull’affidabilità del concorrente” (Consiglio di Stato, ordinanza V, 9 aprile 2020, n. 2332; IV, n. 4937/2020 cit.). Del resto, nemmeno nelle Linee Guida ANAC n. 6 si fa alcun riferimento all’esclusione automatica per omessa dichiarazione di circostanze non tipizzate: al punto anzi, tali Linee Guida precisano che a dover essere comunicata dall’operatore economico, mediante autocertificazione nel D.G.U.E., è soltanto la sussistenza delle «cause di esclusione individuate dall’art. 80», fra le quali non rientrano quelle oggetto di causa. Infine, l’Adunanza Plenaria, con la citata sentenza n. 16 del 28 agosto 2020, ha ribadito che «l’esclusione per omissioni dichiarative del concorrente in relazione a reati c.d. “non ostativi” non può essere automatica». Legale Oggi Consiglio di Stato 1108 del 2 dicembre 2021.

  • Diritto Bancario: abusiva concessione del credito e dissesto del debitore fallito.

    Quando sussiste l'abusiva concessione del credito? e Quando la Banca creditrice può ritenersi responsabile da parte del Curatore dell'impresa poi fallita? Se hai un Tuo caso scrivici A tali domande ha risposto, dopo diversi orientamenti contrastanti, la Cassazione Civile nella recente pronuncia di Settembre 2021. La Sezione Prima, in tema di concessione del credito da parte della banca ad impresa in crisi e della conseguente responsabilità verso il ceto creditorio nonché con riguardo alla legittimazione attiva del curatore fallimentare per la reintegrazione del patrimonio del fallito, ha affermato i seguenti principi di diritto: “L’erogazione del credito che sia qualificabile come “abusiva”, in quanto effettuata con dolo o colpa, ad impresa che si palesi in una situazione di difficoltà economico-finanziaria ed in mancanza di concrete prospettive di superamento della crisi, integra un illecito del soggetto finanziatore, per essere egli venuto meno ai suoi doveri primari di una prudente gestione, che obbliga il medesimo al risarcimento del danno, ove ne discenda l’aggravamento del dissesto favorito dalla continuazione dell’attività di impresa.” E quindi, “Non integra abusiva concessione di credito la condotta della banca che, pur al di fuori di una formale procedura di risoluzione della crisi dell’impresa, abbia assunto un rischio non irragionevole, operando nell’intento del risanamento aziendale ed erogando credito ad un’impresa suscettibile, secondo una valutazione ex ante, di superamento della crisi o almeno di proficua permanenza sul mercato, sulla base di documenti, dati e notizie acquisite da cui sia stata in buona fede desunta la volontà e la possibilità del soggetto finanziato di utilizzare il credito a detti scopi”. Quanto poi alla posizione del curatore dell'impresa debitore poi fallita, e sul ruolo dello stesso nei confronti dell'istituto Bancario ha avuto modo di precisare la suprema Corte che: “Il curatore fallimentare è legittimato ad agire contro la banca per la concessione abusiva del credito, in caso di illecito nuovo finanziamento o di mantenimento dei contratti in corso, che abbia cagionato una diminuzione del patrimonio del soggetto fallito, per il danno diretto all’impresa conseguito al finanziamento e per il pregiudizio all’intero ceto creditorio a causa della perdita della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c.” Ed infine sul versante processuale, un ultima analisi in tema di corresponsabilità degli organi sociali della società fallita, anche a causa dell'abusiva concessione del credito, e del ruolo della Banca, quale è la responsabilità degli uni e dell'altra. Per la Cassazione si tratta di concorso di responsabilità che sebbene abbiano una solidarietà passiva (art. 2055 cc) trattandosi della causazione del medesimo danno, non necessitano tuttavia una azione processuale unica, classificandosi quindi quale mero liticonsorzio facoltativo. Il tema rimane aperto, in quanto sempre piu' di frequente accade che grandi dissesti sono susseguenti a gestioni critiche delle risorse finanziarie reperite a debito senza una adeguata e preventiva valutazione del rischio d'impresa nell'uso delle risorse impiegate e della relativa sostenibilità. Ordinanza 18610/21 Cass. Civ. Legale Oggi

  • Società: Cessione di azienda e Bancarotta, elementi collegati dagli eventi.

    Ci è stato chiesto se possa rispondere del reato di bancarotta fraudolenta l'imprenditore poi dichiarato fallito di una società che abbia precedentemente ceduto il proprio ramo d'azienda, e se l'affitto del ramo di azienda possa essere parificato alla cessione per quanto concerne la responsabilità. In particolare nel quesito la cessione del ramo d'azienda era stata effettuata per rispondere ad esigenze del mercato e per monetizzare un complesso di beni ancora capace di redditività economica. Per rispondere al quesito è opportuno richiamare il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui «integra il reato di bancarotta fraudolenta impropria patrimoniale la cessione di un ramo d'azienda che renda non più possibile l'utile perseguimento dell'oggetto sociale senza garantire contestualmente il ripiano della situazione debitoria della società» L'elemento dirimente quindi per valutare la responsabilità, non è la cessione del ramo di azienda in sé considerato ma il riflesso che tale condotta comporta a carico dell'impresa cedente. La cassazione penale nella pronuncia 16989 del 2014 ha avuto modo di precisare che la bancarotta sussiste ove dalla cessione del ramo di azienda derivi l'impossibilità di perseguire l'oggetto sociale della società cedente. Più in generale, del tutto costante è l'affermazione della Cassazione secondo cui l'alienazione di cespiti della fallita - espressione questa alla quale può ricondursi anche il contratto di affitto - integra la fattispecie di bancarotta per distrazione qualora ad essa non sia seguito «il pagamento del prezzo pattuito ovvero, come nel caso di specie, la prestazione pattuita. Ecco quindi che la cessione del ramo di azienda è parificato all'affitto dell'azienda, ove ai fini degli effetti anche l'affitto, per le modalità in cui è stipulato non garantisca il ripiano dei debiti da parte della società che concede in affitto il proprio ramo. Dunque, integra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione di un ramo di azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale, mentre non assume rilievo, al riguardo la responsabilità dell'acquirente per i debiti aziendali pregressi, in quanto per detti debiti sussiste una normativa ad hoc, stante una co- responsabilità ove detti debiti risultino dai libri sociali, così come previsto dall'art. 2560 cc, senza che tale aspetto possa riguardare la distrazione già compiuta da parte della società alienante. Legale Oggi La cessione del ramo di azienda e bancarotta.

  • Concorso Farmacie e Pianta Organica.. un binomio esplosivo

    Il decreto legge n. 1/2012,ha previsto l’indizione di un bando di concorso straordinario per la copertura di nuove sedi farmaceutiche da individuarsi secondo nuovi e minori parametri demografici (una farmacia ogni 3300 abitanti anzichè, come in precedenza, una farmacia ogni 4000 o 5000 abitanti). La normativa prevedeva una ricognizione del numero di abitanti presenti al 31.12.2010, appunto al fine di individuare quei comuni in cui deve realizzarsi l’ampliamento della pianta organica. Poni il Tuo quesito! Sei un farmacista rurale? In attuazione della normativa i Comuni hanno effettuato la ricognizione demografica al fine di istituiva nuove sedi da inserire nel bando di concorso. Il concorso straordinario, secondo le previsioni normative, avrebbe dovuto concludersi entro il marzo 2013 (quindi in tempi coerenti con la possibilità di una prima revisione della pianta organica nel dicembre 2014) ma, pacificamente per ragioni imputabili alla parte di competenza nazionale di gestione del medesimo, la tempistica si è prolungata e di molto. Ecco che oggi quindi si assiste ad una nuova composizione demografica rispetto a quella oggetto del rilevamento antecedente il concorso visto altresì che sono trascorsi quasi dieci anni da allora. Il sistema normativo ha distribuito le competenze di modo che, oggi, la revisione delle piante organiche delle farmacie competa ai Comuni mentre, pacificamente, la gestione del concorso compete alla Regione. Ex lege la revisione di organico al 31.12.2010 rappresentava il presupposto per l’individuazione dell’oggetto del concorso (numero e sedi messe a bando). Per la Giustizia Amministrativa (Tar Torino n. 1571/2015) sino alla definitiva chiusura del concorso, il suo “oggetto” non possa essere influenzato dalla fisiologica e possibile ulteriore modificazione di una innumerevole serie di dati di fatto (popolazione di tutti i Comuni che hanno, in attuazione della legge, provveduto all’ampliamento delle piante organiche); avallare una simile interpretazione significherebbe per il TAR, vanificare ogni possibilità di chiusura regolare del concorso, essendo evidente che tutti i concorrenti vi hanno partecipato sulla base delle presupposte sedi individuate e che, ogni modifica delle stesse, inciderebbe sulle regole del concorso esponendola ad una sorta di imprevedibile incertezza incompatibile con lo svolgimento regolare di una procedura concorsuale. In presenza di sedi, ancorchè in esubero, tutte occupate, si porrebbe innanzitutto il problema di con quale criterio individuare la sede da sopprimere e, in ogni caso, l’astratta possibilità di soppressione comporterebbe che una attività imprenditoriale resti irrimediabilmente condizionata da imprevedibili andamenti demografici, del tutto a prescindere dal suo effettivo buon funzionamento. Alla luce di siffatte considerazioni ritiene il Tar Torino che, da un lato, si imponga una interpretazione della normativa che escluda fenomeni di variazione dei presupposti a concorso in atto; è quindi evidente che l’originaria previsione di periodica revisione ogni anno pari non possa che essere intesa come operante da momento successivo alla conclusione del concorso, come in effetti congegnata dal legislatore nell’originaria disciplina; in ogni caso non si potrà che ritenere che una sede messa a concorso è assimilabile ad una sede occupata ai fini della revisione in quanto il suo inserimento nel bando di concorso già ha condizionato ed orientato le scelte imprenditoriali di tutti i concorrenti. Tale principio deve essere poi contemperato con quanto statuito di recente dal Tar Palermo n. 288/2021 secondo cui “…la finalità di garantire l’accessibilità degli utenti al servizio distributivo dei farmaci non può significare che occorra procedere all’allocazione delle nuove sedi di farmacia in zone disabitate o del tutto sprovviste di farmacie, né può significare che debba essere evitata la sovrapposizione geografica e demografica con le zone di pertinenza delle farmacie già esistenti, essendo, invece, fisiologica e del tutto rispondente alla ratio della riforma (D.L. 24 gennaio 2012, n.1, art.11) l’eventualità che le nuove zone istituite dai Comuni o dalle Regioni incidano sul bacino d’utenza di una o più sedi preesistenti” (Cons. di Stato, Sez. III, n. 4614/2016; n. 2562/2018; T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. III, n. 2205/2018 e n. 1154/2018). Deve tuttavia tenersi presente che rimane un diritto del titolare di una farmacia quello di sollecitare il Comune alla verifica/revisione periodica della piata organica secondo le esigenze del territorio alla luce dell'andamento demografico, e ciò al fine di evitare “cattedrali nel deserto”, ovvero sedi prive di bacini di utenza effettiva. La tematica è tutt'altro che scontata, anzi, l'avvicinarsi della conclusione del Concorso, e l'aumento delle sedi renderà tale tematica particolarmente calda nei prossimi anni. Contattaci per ogni esigenza sul tema. Potrebbe interessarti: "possibile sopprimere una sede farmaceutica" Legale Oggi Concorso Farmacie Revisione pianta organica farmacie avvocato Aldo Lucarelli

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