Soffermiamoci sul patto di non concorrenza del lavoratore e la differenza con il divieto di storno della clientela o dei dipendenti in relazione poi al concetto di concorrenza sleale.
Prima di scendere nel dettaglio precisiamo che il patto di non concorrenza è quell'accordo con il quale si limita lo svolgimento dell'attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, esso è nullo se non risulta da atto scritto e se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro ed inoltre se il vincolo di non concorrenza non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo. Il patto quindi è un preciso accordo che impone un sacrificio al prestatore di lavoro.
Mentre il divieto di storno è una specifica clausola contrattuale afferente per l'appunto il divieto imposto all'altra parte di sviare la clientela o i dipendenti della società o altre risorse indipendentemente dalla concorrenza.
Va poi considerato che lo sviamento di clientela in sé e per sé considerato, anche ove non specificamente pattuito potrebbe rientrare nei ranghi del patto di non concorrenza, ove vengano rispettati i requisiti imposti dalla definizione data dalla Cassazione, mentre al contrario potrà ritenersi operante come imposizione autonoma ove specificatamente pattuito.
Al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza disciplinato dall'art. 2125 del codice civile, la Cassazione (22247/21) di recente ha affermato che occorre osservare i seguenti criteri:
a) il patto non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche volte da datore di lavoro, da identificarsi in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergano domande e offerte di beni o servizi identici o comunque parimenti idonei a soddisfare le esigenze della clientela del medesimo mercato;
b) non deve essere di ampiezza tale da comprimere la esplicazione della concreta professionalità del lavoratore in termini che ne compromettano ogni potenzialità reddituale;
c) quanto al corrispettivo dovuto, il patto non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore e alla riduzione delle sue capacità di guadagno, indipendentemente dall'utilità che il comportamento richiesto rappresenta per il datore di lavoro e dal suo ipotetico valore di mercato. (Cass. n. 9790 del 2020);
d) il corrispettivo del patto di non concorrenza può essere erogato anche in corso del rapporto di lavoro
Non può, quindi, estendersi il regime normativo del patto di non concorrenza anche alla previsione contrattuale (quindi inserita specificatamente nel contratto quale clausola autonoma) del divieto di storno di clienti perché il patto di non concorrenza, e la clausola contrattuale contenente il divieto di storno di clientela vietano due condotte differenti: la prima, infatti, proibisce lo svolgimento di attività lavorativa in concorrenza con la società datrice, anche al termine del rapporto di lavoro ed ha durata limitata, (art. 2125 comma 2); la seconda, invece, impedisce il compimento di atti e comportamenti funzionali a sviarla clientela storica verso un'altra impresa datrice, sfruttando il rapporto di fiducia instaurato e consolidato durante il periodo di dipendenza con la prima società.
Il divieto di storno di clientela mira, poi, a garantire la tutela dell'avviamento della società stipulante, dal momento che esso concorre al mantenimento e alla consolidazione dei buoni rapporti con il portafoglio di clienti acquisiti nel corso del tempo.
Infine la differenza e l'autonomia tra queste due clausole può desumersi indirettamente anche dal diverso termine di efficacia previsto per l'una e per l'altra nel contratto.
Il quadro sopra delineato deve infine essere integrato con le previsioni dell'art. 2598 in tema di concorrenza sleale, ovvero allorquando il responsabile assume una delle seguenti condotte
1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;
2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente
3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda, mediante il malizioso ed artificioso squilibrio delle condizioni di mercato.
Sarà quindi opera del Legale e poi del Giudice inquadrare la vicenda nei contorni delineati dalla normativa di riferimento.
Fonte delle citazioni utilizzate Cassazione Civile Lavoro n. 22247/2021; Cass. 9790/2020; Cass. 9790/2018.
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