Abbiamo già affrontato il tema della SRL e della prelazione in capo ai soci titolari che vogliano cedere la propria quota. In questo articolo trattiamo della differenza tra la prelazione prevista inizialmente nell'atto costitutivo e quella prevista da un patto collaterale, cd. patto parasociale anche successivo alla formazione della società.
Cosa accade se gli altri soci non sono d'accordo ad una cessione di quote ad un estraneo?
E' possibile inserire un diritto di prelazione, ove questo non sia stato già previsto in sede di atto costitutivo.
Il patto in questione viene, pertanto, a porsi come un tipico accordo parasociale destinato, in quanto tale, a vincolare i soli soci che lo abbiano stipulato, ma non anche a riflettersi sulla conformazione dell’ente societario. Quel che ne forma oggetto, infatti, e’ un diritto, avente ad oggetto un bene – la quota di partecipazione in societa’ – esistente nel patrimonio personale del socio, agli atti di disposizione del quale la societa’, in quanto persona giuridica titolare di un patrimonio ben distinto da quello dei propri stessi soci, e’, in linea di principio, estranea (cfr., in tal senso, Cass. n. 7614/1996).
Esistono differenze tra prelazione disposta con accordo parasociale e prelazione inserita nell'atto costitutivo?
Si infatti il patto di prelazione venga inserito, con apposita clausola, dai soci stipulanti nell’atto costitutivo o nello statuto della stessa societa’ non sarà opponibile alla società.
Ed infatti se quest’inserimento non basta, invero, a privare il patto della sua valenza parasociale, insita nella sua stessa natura, e’ tuttavia innegabile che esso valga, gia’ solo per aver trasformato il patto in una clausola statutaria, a conferirgli anche una caratterizzazione ulteriore, questa si’ di carattere sociale.
Non puo’, difatti, revocarsi in dubbio che, con l’inserimento della clausola di prelazione nell’atto costitutivo, si sia inteso attribuire alla medesima, al pari di qualsiasi altra pattuizione riguardante posizioni soggettive individuali dei soci che venga iscritta nello statuto dell’ente, anche un valore rilevante per la societa’, la cui organizzazione ed il cui funzionamento l’atto costitutivo e lo statuto sono destinati a regolare.
Ne discende che le clausole in questione, venendo ad assolvere anche ad una funzione specificamente sociale, atteso il loro inserimento nell’atto costitutivo o nello statuto dell’ente, cessano di esser regolate dai soli principi del diritto dei contratti, per rientrare, invece, nell’orbita piu’ specifica della normativa societaria (Cass. 7614/1996). In tale prospettiva la clausola statutaria di prelazione avrebbe “efficacia reale” ed i suoi effetti sarebbero opponibili anche al terzo acquirente, trattandosi di una regola del gruppo organizzato alla quale non potrebbe non conformarsi colui che intendesse entrare a far parte di quel medesimo gruppo (cfr. Cass. 7614/1996; 8645/1998; 12797/2012).
E tuttavia, dalla suindicata “efficacia reale” del patto di prelazione, quando e’ trasfuso in una clausola dell’atto costitutivo o dello statuto, non puo’ derivare il riconoscimento al prelazionario pretermesso del diritto al riscatto del bene, mediante la proposizione di una domanda di retratto.
Costituisce, difatti, un’affermazione consolidata nella giurisprudenza della Corte di Cassazione ( quella secondo cui, sul plano generale, la prelazione convenzionale, avendo efficacia obbligatoria, e’ efficace e vincolante per i soli contraenti e non per i terzi estranei.
Con la conseguenza che l’acquisto di questi ultimi dal promittente la prelazione, inadempiente al relativo patto, non e’ soggetto a caducazione a seguito della pretesa di riscatto – che, invece, nella prelazione legale e’ prevista espressamente dalla legge (es articolo 732 c.c., Legge n. 590 del 1965, articolo 8, Legge n. 392 del 1978, articoli 38 e 39) – esercitata dal prelazionario, essendo quest’ultimo titolare soltanto, in mancanza di un’espressa previsione normativa di segno contrario, dell’azione personale risarcitoria nei confronti dell’inadempiente (cfr. Cass. 1760/1969; 616/1977; 3466/1988; 19928/2008).
Quindi il mancato rispetto della prelazione non comporterà il riscatto della quota venduta al terzo.
Ne consegue che la violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta l’inopponibilita’ nei confronti della societa’ e dei soci titolari del diritto di prelazione – stante la menzionata “efficacia reale” del patto inserito nello statuto sociale -della cessione della partecipazione societaria (che resta, pero’, valida tra le parti stipulanti), nonche’ l’obbligo di risarcire il danno eventualmente prodotto, alla stregua delle norme generali sull’inadempimento delle obbligazioni.
Per contro, siffatta violazione non comporta anche il diritto potestativo di riscattare la partecipazione nei confronti dell’acquirente, atteso che il c.d. retratto non integra un rimedio generale in caso di violazioni di obbligazioni contrattuali, ma solo una forma di tutela specificamente apprestata dalla legge e conformativa dei diritti di prelazione, previsti per legge, spettanti ai relativi titolari (cfr. Cass. 12370/2014).
Esistono rimedi?
La prassi operativa pone l'accento su due aspetti. Il primo risiede nella risoluzione della compravendita tra colui terzo estraneo che ha acquistato e il socio che abbia ceduto la quota. Il fatto che si punti alla risoluzione di codesto contratto risiede nella poca utilizzabilità del contratto posto in essere che potrebbe essere affetto anche da vizi propri quali "la mancanza delle qualità promesse della cosa venduta". In sintesi il contratto si risolve perché la cessione non porta all' effetto voluto tra le parti.
Una seconda ipotesi è quella di prevedere un diritto di riscatto da parte degli altri soci che possano riscattare la quota illegittimamente venduta. Tale ipotesi sta prendendo piede, rimane il nodo di dover prevedere un simile rimedio in fase di stesura.
Rimane quindi poi la strada della risarcitoria del danno arrecato ai soci ed alla società, dal quale potrebbe discendere un interesse a comporre la lite.
Tali aspetti inducono a non sottovalutare la previsione di clausole statutarie che mirino a comporre liti future ed evitare complesse questioni operative, non immaginabili in sede di costituzione della società.
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