Per il Consiglio di Stato la clausola illegittimamente escludente è nulla e non necessità una sua specifica impugnazione, ma ciò comporta che gli atti successivi siano tutti impugnati.
• Questa la Conclusione: Non vi è dunque alcun onere, per le imprese partecipanti alla gara di impugnare (entro l’ordinario termine di decadenza) la clausola escludente nulla e quindi “inefficace” ex lege, ma vi è uno specifico onere di impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell’atto precedente.
• Ricostruzione della decisione:
Il Codice dei contratti pubblici, in linea con la giurisprudenza del Consiglio di Stato divenuta infine prevalente, nel vigore del d.lgs. n. 163 del 2006 (v., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 30 novembre 2015, n. 5396; id. 26 maggio 2017, n. 2627), dopo un primo indirizzo che negava l’ammissibilità dell’avvalimento sul presupposto del carattere intrinsecamente e insostituibilmente soggettivo e quasi “personalistico” della certificazione di qualità, ammette ora l’avvalimento delle certificazioni di qualità e, in particolare, delle attestazioni SOA, poiché riconosce che anche la certificazione di qualità costituisce un requisito speciale di natura tecnico-organizzativa, come tale suscettibile di avvalimento, in quanto il contenuto dell’attestazione concerne il sistema gestionale dell’azienda e l’efficacia del suo processo operativo.
Per i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici di importo pari o superiore a 150.000 euro, il possesso di detti requisiti di qualificazione avviene esclusivamente, ai sensi dell’art. 84, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016, mediante attestazione da parte delle società organismi di attestazione (SOA) autorizzate dall’ANAC.
Tuttavia, per evitare che l’avvalimento dell’attestazione SOA, ammissibile in via di principio per il favor partecipationis che permea l’istituto dell’avvalimento, divenga in concreto un mezzo per eludere il rigoroso sistema di qualificazione nel settore dei lavori pubblici, la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha più volte ribadito che l’avvalimento dell’attestazione SOA è consentito ad una duplice condizione:
a) che oggetto della messa a disposizione sia l’intero setting di elementi e requisiti che hanno consentito all’impresa ausiliaria di ottenere il rilascio dell’attestazione SOA;
b) che il contratto di avvalimento dia
conto, in modo puntuale, del complesso dei requisiti oggetto di avvalimento, senza impiegare formule generiche o di mero stile.
Nel delineato quadro normativo, sussistendo il rispetto delle condizioni cui la giurisprudenza del Consiglio di Stato subordina la legittimità del ricorso all’avvalimento dell’attestazione SOA e, per converso, non ricorrendo alcuna delle ipotesi, anche indirette, in cui l’avvalimento risulta vietato, l’obbligo, imposto all’ausiliata dal disciplinare di gara, espressamente a pena di esclusione, di produrre la propria attestazione SOA, quando questa vorrebbe avvalersi dell’attestazione SOA dell’ausiliaria, non solo è contraddittorio rispetto alla previsione dello stesso articolo 20 (il quale consente che «i concorrenti possono soddisfare la richiesta relativa al possesso dei requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico e professionale richiesti nel disciplinare di gara, avvalendosi dell’attestazione SOA di altro soggetto»),
ma si pone in contrasto con gli artt. 84 e 89, d.lgs. n. 50 del 2016, che non escludono la possibilità dell’avvalimento dell’attestazione SOA né, tantomeno, subordinano tale possibilità alla condizione di depositare in sede di gara l’attestazione SOA dell’impresa ausiliata in proprio: come ha ritenuto la sentenza n. 5834 del 23 agosto 2019 della Sezione V del Consiglio di Stato, una siffatta previsione si traduce in un vero e proprio divieto di applicare l’istituto dell’avvalimento mediante la previsione di un adempimento apparentemente formale che, in modo surrettizio ma certamente a pena di esclusione per il concorrente, ne comprime l’operatività senza alcuna idonea copertura normativa.
La nullità dell’atto amministrativo -figura generale, assieme all’annullabilità, dell’invalidità e che può essere riguardata non solo come vizio, ma anche come azione, eccezione in senso tecnico e come sanzione- va analizzata nel contesto ordinamentale specifico, diverso da quello civile.
Nel complesso delineato contesto ordinamentale, l’Adunanza Plenaria ritiene che la clausola escludente - che si ponga in violazione dell’art. 83, comma 8, del ‘secondo codice’ sugli appalti pubblici – non si possa considerare annullabile (e dunque efficace).
Sul significato di tale nullità si è pronunciata l’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 9 del 2014, per la quale “la sanzione della nullità… è riferita letteralmente alle singole clausole della legge di gara esorbitanti dai casi tipici; si dovrà fare applicazione, pertanto, dei principi in tema di nullità parziale e segnatamente dell’art. 1419, comma 2, c.c. (vitiatur sed non vitiat”).
Questa sentenza ha aggiunto che “la nullità di tali clausole incide sul regime dei termini di impugnazione …, atteso che la domanda di nullità si propone nel termine di decadenza di centottanta giorni e la nullità può sempre essere eccepita dalla parte resistente ovvero rilevata dal giudice d’ufficio’, e che la clausola escludente nulla è ‘priva di efficacia e dunque disapplicabile da parte della stessa stazione appaltante ovvero da parte del giudice”.
L’art. 83, comma 9, del vigente codice degli appalti (d.lg. n. 50 del 2016) ha confermato il principio di tassatività delle cause di esclusione e ha ribadito che ‘sono comunque nulle’ le clausole escludenti in contrasto con tale principio.
Il legislatore, nel prevedere la nullità della clausola in questione, ha disposto la sua inefficacia, tanto che – se anche il procedimento dura ben più dei sei mesi previsti dall’art. 31 c.p.a. per l’esercizio della azione di nullità – la stazione appaltante comunque non può attribuire ad essa rilievo perché ritenuta “inoppugnabile”.
I successivi atti del procedimento, inclusi quelli di esclusione e di aggiudicazione, pur basati sulla clausola nulla, conservano il loro carattere autoritativo e sono soggetti al termine di impugnazione previsto dall’art. 120 c.p.a., entro il quale si può chiedere l’annullamento dell’atto di esclusione (e degli atti successivi) per aver fatto illegittima applicazione della clausola escludente nulla.
L’art. 120 c.p.a. non prevede alcuna deroga al termine di decadenza di trenta giorni, che sussiste qualsiasi sia il vizio – più o meno grave – dell’atto impugnato. Né può farsi discendere, quanto meno nell’ordinamento amministrativo, la nullità di un atto applicativo di un precedente provvedimento solo parzialmente affetto da una nullità riferita a una sua specifica clausola inidonea a inficiare la validità di quel provvedimento nel suo complesso.
• Conclusione:
• Non vi è dunque alcun onere, in conclusione, per le imprese partecipanti alla gara di impugnare (entro l’ordinario termine di decadenza) la clausola escludente nulla e quindi “inefficace” ex lege, ma vi è uno specifico onere di impugnare nei termini ordinari, gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell’atto precedente.
a cura dell'Avvocato Aldo Lucarelli
Amministrativo Avvocato
Consiglio di Stato Adunanza Plenaria 16 Ottobre 2020 n. 22
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